STRATEGIE DI SOPRAVVIVENZA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS – PARTE 3

“Ciò che non può essere comunicato all’altro non può essere comunicato a se stessi”

John Bowlby.

 

In un momento così delicato come quello che stiamo attraversando ormai da tanti mesi parlare, tirare fuori le emozioni  e i pensieri che ci possono attanagliare aiuta ad elaborare lo stress e a registrare l’esperienza in modo meno traumatico. Se riusciamo a parlare e trovare ascolto negli altri il nostro cervello riuscirà a collocare questo ricordo nel nostro passato e non ce lo farà vivere continuamente come nostro presente anche quando non sarà più tale. A lungo andare, se tacciamo tenendo dentro ciò che ci fa stare male, ci stressa o addirittura ci terrorizza, il livello dello stress può diventare tale che l’unica strada percorribile diventa la negazione a se stessi di quello che abbiamo vissuto o addirittura l’amnesia e/o l’apatia.  La conseguenza di tutto ciò è il non sentirsi reali internamente, mettendo in dubbio le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i nostri pensieri che giudichiamo sbagliati.

Le tracce della memoria traumatica non sono organizzate secondo una narrativa logica e coerente ma in frammenti sensoriali ed emotivi: immagini, suoni e sensazioni fisiche. La narrazione, il racconto fatto per qualcun altro organizza il nostro pensiero integrando questi frammenti in una storia con un inizio e una fine e quindi collocabile nel tempo, nel passato. Non è più qualcosa che stiamo vivendo nel qui ed ora ma qualcosa che abbiamo vissuto nel là ed allora.

Il parlare, tirare fuori quello che abbiamo dentro, trasformare in parole per riconoscere e nominare quello che ci è successo, che ci ha fatto stare male e che ci fa stare male oggi è molto importante.  Il silenzio significa morte dell’anima che tiene tutto dentro e piano piano si fa morire. Il silenzio non fa altro che rinforzare il meccanismo maligno del trauma (Van der Kolk, 2014). Poter dire ad alta voce ad un altro essere umano ciò che ci è successo, ciò che ci ha fatto stare male è il segnale dell’inizio della guarigione. Tradurre in parole la sofferenza, raccontarla agli altri e in primis a se stessi aiuta anche a ri-significare ciò che ci è successo, dargli un nuovo significato che aiuti il nostro cervello a registrarlo in modo funzionale e la nostra anima e corpo a sentirlo in un modo diverso, alleggerito magari dai sensi di colpa, dalla vergogna, dal senso di impotenza che lo accompagnava da sempre.

Sentirsi ascoltati e compresi, ma non solo, sentirsi accolti di testa e di pancia, sentirsi contenuti nella proprie emozioni (angosce, paure) cambia la nostra fisiologia, distende il nostro viso e i nostri muscoli che sentono di non essere da soli a dover sostenere la “guerra”. 

Tenere dentro, mantenere un segreto richiede un enorme quantità di energia che viene tolta alla motivazione, alla progettualità, al piacere del condividere gioie e momenti con gli altri. Ci sentiamo quindi spenti e depressi. Gli ormoni dello stress ci inondano e, nel tentativo di attivarci per sopravvivere (non vivere) allo stress o al trauma, ci fanno venire mal di testa, dolori muscolari, problemi gastrici e/o intestinali, problemi sessuali, ecc. Quindi il nostro corpo inizia a parlare al posto nostro e lo fa nell’unico modo che conosce, attraverso i sintomi fisici. Più la bocca tace e più il corpo parlerà. Tutto questo tacere, questo ignorare la realtà interiore deteriora la percezione di sé e delle proprie intenzioni. Frasi come “Non sarò più in grado di provare nulla”, “Sono morto dentro”, “Non valgo”, “Non mi riconosco più” diventano frequenti.

Da dove partire quindi? Dal permettere a se stessi di sapere ciò che in realtà si sa già e da molto tempo magari. Questo richiede coraggio, ma d’altronde il coraggio non è mancanza di paura ma consapevolezza di questa e il bisogno di andare avanti lo stesso.

 

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